Anna Cassarino
Anna ha trascorso in Madagascar tre mesi. Adesso viaggia per l'Italia, lavorando a tempo pieno al suo progetto di sensibilizzazione all'ecologia e alle culture diverse attraverso la creatività.

http://www.incroci.net/ascuoladaglialberi/index.htm

-----------------------------

PRIMA DI PRESENTARE GLI ALBERI, VORREI SOTTOLINEARE L’IMPORTANZA DELLE MODESTE PIANTE CHE SONO I CEREALI, SENZA I QUALI L’UMANITA’ NON SI SAREBBE POTUTA SVILUPPARE.

CIASCUNA TERRA OFFRE QUELLO PIU’ GIUSTO PER IL CLIMA E PER IL TERRENO IN CUI VIVE

Questa è una pianticella di riso, che può essere coltivato dove c’è acqua in abbondanza: sugli altipiani del Madagascar, per esempio, per i cui abitanti è l’alimento di base. Richiede un lavoro piuttosto impegnativo, con l’allagamento delle risaie e la piantumazione. E’ molto nutriente e sano. Con la sua fermentazione si può ottenere il rum.

E’ il cereale che caratterizza le popolazioni asiatiche. I malgasci, come popolo, derivano in parte dall’Asia e in parte dall’Africa.

IL BAOBAB SACRO

I baobab, re della vegetazione africana, in Madagascar sono altissimi, oltre che massicci. Nascono dove fa più caldo e c’è meno acqua, come dalle parti di Morondava e crescono con la necessaria lentezza per diventare maestosi e longevi. Mentre gran parte degli altri alberi, a 20 anni ha già raggiunto una taglia apprezzabile, loro sono ancora alberelli di cui non si sospetterebbe il futuro e la cui crescita continua lenta nei secoli, in larghezza ed in altezza, al di sopra di tutti gli altri esseri del regno vegetale.

Fra di loro c’è il venerabile baobab sacro, immenso con i suoi sette metri di diametro e trenta di altezza. Era già centenario all’epoca di Gesù e nella sua lunga vita ha assorbito dal suolo e dall’aria, tutta l’esperienza che con la sua saggia lentezza ha trasformato in sapienza. Il suo corpo spugnoso è un enorme serbatoio d’acqua e di conoscenza, che comprende la natura di tutte le creature venute presso di lui per trovare riparo e conforto.

Gli umani intuiscono che la loro mente è come un baobab, a cui servono secoli di vita per diventare grande, perché nella loro esistenza affannosa, dai propri errori imparano ben poco e devono morire tante volte prima che l’esperienza si faccia saggezza. Si avvicinano a lui con rispetto, riconoscendo un modello, vedendo nella sua grandezza ciò che un giorno, in un’altra vita ancora lontana, potranno essere essi stessi. Gli fanno offerte di rum e di riso, per onorarlo e chiedergli protezione.
E intanto pregano, versando lacrime.


                                                           


IL FRANGIPANE E LA FELCE-NIDO

E’ nella stagione asciutta che gli alberi tropicali, nei loro paesi, perdono le foglie. Spesso è anche la più calda e per i vegetali è naturale allora riposarsi, in attesa di condizioni migliori. Il frangipane, dai bei fiori profumati e carnosi, perde addirittura i ramoscelli più esili.

Nel giardino dell’ospedale delle suore di Tana uno di loro tiene tra le sue braccia una felce-nido, dalle lunghe e belle foglie sempreverdi. E’ una pianta epifita, che non danneggia il suo ospite ma, anzi, lo ripaga con un po’ di umidità.

Come tutte le creature vegetali, sensibile a ciò che avviene intorno e su di lui, il frangipane sente attraverso il sonno la freschezza delle lunghe penne verdi non sue, simili alla coda di un uccello del paradiso. Così, sul ramoscello più vicino, un ciuffetto di foglie e di fiori è spuntato fuori stagione come un sogno nel dormiveglia della precoce primavera..



Ecco due racconti già pubblicati dalla rivista ROSSO FIORENTINO a gennaio e febbraio 2004

UNA LUNGA DOLCEZZA

Per Tsaboto era arrivato il momento di morire. Era vissuto sempre con la sua gente, i Tanala, sugli altipiani del Madagascar centrale. La sua non era stata una vita facile : troppi lutti in famiglia, lo avevano addolorato, ma aveva continuato a lavorare come apicoltore, consolandosi nella simbiosi con le grandi lavoratrici che non si fanno scoraggiare facilmente e prendono forza dalla reciproca collaborazione. Aveva osservato quanto tenessero alla pulizia e non tollerassero i parassiti : chi ne voleva il miele doveva fare in modo da soddisfare queste giuste esigenze. Le aveva tanto amate da chiedere alla sua gente di poter restare, anche dopo la morte, accanto a loro.

Il suo corpo fu messo allora in una cassa di legno e issata fra i rami di un Jacaranda, che con il nettare attira i laboriosi insetti e riproduce il cielo al tramonto con il colore dei suoi fiori.

Passò molto tempo e di Tsaboto non erano rimaste che le ossa, bianche e sottili, tipiche della struttura minuta dei malgasci. Nella cassa in cui era adagiato, il sole e la pioggia avevano aperto delle fessure e gli abitanti degli alberi potevano vedere all’interno i fragili resti.

Anche le api avevano finito con lo sbirciare dentro la semplice bara e, trovandola oramai pulita, avevano deciso di installarvisi, riempiendo il delicato scheletro di miele e di cera, facendolo tornare ad essere abitato dalla vita: dolce, finalmente.

Forse è anche per questo che i Tanala, fra le api quando ancora provano l’amarezza della vita umana, trascorrono gli anni dopo la morte sugli alberi, perché il loro corpo conosca, infine, solo una lunga dolcezza.

Questo racconto fa parte del mio spettacolo

FOGLIE MORTE

Il Madagascar poteva essere orgoglioso delle sue banconote perché erano fra le più belle al mondo. Ciascun valore si distingueva chiaramente nelle dimensioni, ma anche nei disegni e nei colori più vivaci: rosa, verdi, azzurri, viola, mostravano le facce della sua gente, i paesaggi, gli alberi, la frutta, gli animali che ne sono la vera ricchezza. Chi aveva tra le mani il denaro malgascio, poteva vedere qual è il fascino della Grande Isola. Dalla carta sorridevano i visi dolci di un popolo accogliente e mite, invece di personaggi famosi ed importanti. Era un segno distintivo, un’impronta chiara.

Con l’avanzare del tempo e della povertà, però, le banconote valevano sempre meno; nelle tasche si accumulavano fasci di cartamoneta dallo scarso potere ed il colore dei troppo poveri fogli, a forza di passare da una mano all’altra, si spegneva sotto il sudiciume.

Diventati cenci oscuri e puzzolenti resistevano ancora, benché sfiniti, fino a non poterne più e cominciavano allora a sbriciolarsi, sbocconcellandosi lungo i lati e diventando sempre più scuri, fino a sembrare foglie morte da troppo tempo. Poteva capitare, allora, che si perdessero cadendo accidentalmente a terra, confondendosi nella polvere delle strade sconnesse.

Scomparivano così, tornando a far parte di quella natura che avevano tanto magnificato e che portavano ancora impressa, sotto la patina scura, con la freschezza di una volta.