PRIMA DI PRESENTARE
GLI ALBERI, VORREI SOTTOLINEARE L’IMPORTANZA DELLE MODESTE
PIANTE CHE SONO I CEREALI, SENZA I QUALI L’UMANITA’
NON SI SAREBBE POTUTA SVILUPPARE.
CIASCUNA TERRA
OFFRE QUELLO PIU’ GIUSTO PER IL CLIMA E PER IL TERRENO IN
CUI VIVE
Questa è una pianticella
di riso, che può essere coltivato dove c’è
acqua in abbondanza: sugli altipiani del Madagascar, per esempio,
per i cui abitanti è l’alimento di base. Richiede
un lavoro piuttosto impegnativo, con l’allagamento delle
risaie e la piantumazione. E’ molto nutriente e sano. Con
la sua fermentazione si può ottenere il rum.
E’ il cereale che
caratterizza le popolazioni asiatiche. I malgasci, come popolo,
derivano in parte dall’Asia e in parte dall’Africa.
IL BAOBAB
SACRO
I baobab, re della vegetazione
africana, in Madagascar sono altissimi, oltre che massicci. Nascono
dove fa più caldo e c’è meno acqua, come dalle
parti di Morondava e crescono con la necessaria lentezza per diventare
maestosi e longevi. Mentre gran parte degli altri alberi, a 20
anni ha già raggiunto una taglia apprezzabile, loro sono
ancora alberelli di cui non si sospetterebbe il futuro e la cui
crescita continua lenta nei secoli, in larghezza ed in altezza,
al di sopra di tutti gli altri esseri del regno vegetale.
Fra di loro c’è
il venerabile baobab sacro, immenso con i suoi sette metri di
diametro e trenta di altezza. Era già centenario all’epoca
di Gesù e nella sua lunga vita ha assorbito dal suolo e
dall’aria, tutta l’esperienza che con la sua saggia
lentezza ha trasformato in sapienza. Il suo corpo spugnoso è
un enorme serbatoio d’acqua e di conoscenza, che comprende
la natura di tutte le creature venute presso di lui per trovare
riparo e conforto.
Gli umani intuiscono che
la loro mente è come un baobab, a cui servono secoli di
vita per diventare grande, perché nella loro esistenza
affannosa, dai propri errori imparano ben poco e devono morire
tante volte prima che l’esperienza si faccia saggezza. Si
avvicinano a lui con rispetto, riconoscendo un modello, vedendo
nella sua grandezza ciò che un giorno, in un’altra
vita ancora lontana, potranno essere essi stessi. Gli fanno offerte
di rum e di riso, per onorarlo e chiedergli protezione.
E intanto pregano, versando lacrime.
IL FRANGIPANE E LA FELCE-NIDO
E’ nella stagione
asciutta che gli alberi tropicali, nei loro paesi, perdono le
foglie. Spesso è anche la più calda e per i vegetali
è naturale allora riposarsi, in attesa di condizioni migliori.
Il frangipane, dai bei fiori profumati e carnosi, perde addirittura
i ramoscelli più esili.
Nel giardino dell’ospedale
delle suore di Tana uno di loro tiene tra le sue braccia una felce-nido,
dalle lunghe e belle foglie sempreverdi. E’ una pianta epifita,
che non danneggia il suo ospite ma, anzi, lo ripaga con un po’
di umidità.
Come tutte le creature
vegetali, sensibile a ciò che avviene intorno e su di lui,
il frangipane sente attraverso il sonno la freschezza delle lunghe
penne verdi non sue, simili alla coda di un uccello del paradiso.
Così, sul ramoscello più vicino, un ciuffetto di
foglie e di fiori è spuntato fuori stagione come un sogno
nel dormiveglia della precoce primavera..
Ecco due racconti già pubblicati dalla rivista ROSSO FIORENTINO
a gennaio e febbraio 2004
UNA LUNGA
DOLCEZZA
Per Tsaboto era arrivato
il momento di morire. Era vissuto sempre con la sua gente, i Tanala,
sugli altipiani del Madagascar centrale. La sua non era stata
una vita facile : troppi lutti in famiglia, lo avevano addolorato,
ma aveva continuato a lavorare come apicoltore, consolandosi nella
simbiosi con le grandi lavoratrici che non si fanno scoraggiare
facilmente e prendono forza dalla reciproca collaborazione. Aveva
osservato quanto tenessero alla pulizia e non tollerassero i parassiti
: chi ne voleva il miele doveva fare in modo da soddisfare queste
giuste esigenze. Le aveva tanto amate da chiedere alla sua gente
di poter restare, anche dopo la morte, accanto a loro.
Il suo corpo fu messo allora
in una cassa di legno e issata fra i rami di un Jacaranda, che
con il nettare attira i laboriosi insetti e riproduce il cielo
al tramonto con il colore dei suoi fiori.
Passò molto tempo
e di Tsaboto non erano rimaste che le ossa, bianche e sottili,
tipiche della struttura minuta dei malgasci. Nella cassa in cui
era adagiato, il sole e la pioggia avevano aperto delle fessure
e gli abitanti degli alberi potevano vedere all’interno
i fragili resti.
Anche le api avevano finito
con lo sbirciare dentro la semplice bara e, trovandola oramai
pulita, avevano deciso di installarvisi, riempiendo il delicato
scheletro di miele e di cera, facendolo tornare ad essere abitato
dalla vita: dolce, finalmente.
Forse è anche per
questo che i Tanala, fra le api quando ancora provano l’amarezza
della vita umana, trascorrono gli anni dopo la morte sugli alberi,
perché il loro corpo conosca, infine, solo una lunga dolcezza.
Questo racconto fa parte
del mio spettacolo
FOGLIE MORTE
Il Madagascar poteva essere
orgoglioso delle sue banconote perché erano fra le più
belle al mondo. Ciascun valore si distingueva chiaramente nelle
dimensioni, ma anche nei disegni e nei colori più vivaci:
rosa, verdi, azzurri, viola, mostravano le facce della sua gente,
i paesaggi, gli alberi, la frutta, gli animali che ne sono la
vera ricchezza. Chi aveva tra le mani il denaro malgascio, poteva
vedere qual è il fascino della Grande Isola. Dalla carta
sorridevano i visi dolci di un popolo accogliente e mite, invece
di personaggi famosi ed importanti. Era un segno distintivo, un’impronta
chiara.
Con l’avanzare del
tempo e della povertà, però, le banconote valevano
sempre meno; nelle tasche si accumulavano fasci di cartamoneta
dallo scarso potere ed il colore dei troppo poveri fogli, a forza
di passare da una mano all’altra, si spegneva sotto il sudiciume.
Diventati cenci oscuri
e puzzolenti resistevano ancora, benché sfiniti, fino a
non poterne più e cominciavano allora a sbriciolarsi, sbocconcellandosi
lungo i lati e diventando sempre più scuri, fino a sembrare
foglie morte da troppo tempo. Poteva capitare, allora, che si
perdessero cadendo accidentalmente a terra, confondendosi nella
polvere delle strade sconnesse.
Scomparivano così,
tornando a far parte di quella natura che avevano tanto magnificato
e che portavano ancora impressa, sotto la patina scura, con la
freschezza di una volta.
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